LE CRITICHE

Sono qui riportate le opinioni e i pensieri di storici e critici d'arte, curatori e artisti entrati in qualsivoglia modo in contatto con l'artista e e le sue tante opere.


Il dialogo continuo con la critica resta una fonte d'ispirazione, una relazione costruttiva, una necessità per ogni artista contemporaneo.

LE PAROLE DEI CRITICI

Philippe Daverio

È probabile che il percorso più attraente per un artista consapevole oggi non sia altro che tentare con intelligenza di riassumere i percorsi disordinati che il XX secolo ha consegnato alla storia delle arti. E cosa rimane oggi di quegli esperimenti? Forse solo i fossili. Oppure i detriti di oggetti industriali che hanno apparentemente esaurito la loro funzione.


Vi è infatti una curiosa caratteristica nel mondo del consumismo, che l’umanità ha intrapreso dopo la rivoluzione industriale. Per la prima volta dagli anni lontani del neolitico, si produce ben di più di quanto non si possa consumare. E se, fino a ieri nell’era lunga dell’artigiano, il prodotto dell’ operosità andava sfruttato fino al suo esaurimento, dalla mutazione industriale in poi il manufatto, non più “fatto a mano” ma diventato di fabbrica, perde la sua unicità, viene sostituito facilmente e si disperde. Ritrova la sua personalità autonoma solo nella fatiscenza, in quanto ogni percorso di produzione è replicabile mentre ogni percorso di parziale consumo torna ad essere individuale. Ogni copia del giornale, identica alle altre quando esce dalla rotativa, diventa autonoma quando si sgualcisce.


Ed è in quel momento che interviene l’artista, il vaticinatore che ne sancisce la personalità. L’ uso iniziale è esaurito, almeno apparentemente. Ma rimane pur sempre nel prodotto una rimanenza oggettiva di utilità che si fa residuo di forza poetica.


E’ questa rimanenza che viene recuperata da Vincenzo Vavuso per generare un percorso inatteso e creativo.


La metodologia non è di per se stata inventata ora: già Marcel Duchamp la aveva individuata andando a segnalare oggetti normali e banali per attribuire loro una dimensione di lettura diversa da quella ovvia. Gli bastava, cent’ anni fa, girare a testa in giù un “pissoir” per farne una fontana, era sufficiente esporre all’ incontrario una ruota di bicicletta sulla sua forcina per farla apparire come una scultura. Il rovescio della realtà era il mezzo apparentemente elementare per generare una pulsione innovativa in chi la guardava. Fu quella una strada che offrì alla psiche ludica di dada una infinita articolazione di opportunità. Man Ray, che si esercitava principalmente nella riproduzione fotografica del mondo che indagava, vi trovò una vasta fonte di ispirazione.


Sembrava forse allora il metodo nuovo dell’invenzione essere solamente una sottile provocazione. Non fu affatto così: si rovesciava anche nella fantasia un potente vaso di Pandora dalle mille declinazioni. Furono raccolte queste dalle menti fervide del Nouveau Réalisme parigino dell’ immediato dopoguerra. Hans Tinguely e l’ amico suo Daniel Spoerri andarono a discernervi strade ulteriori. Le loro solo apparenti accozzaglie di oggetti ritrovati al mercato delle pulci si trasformavano in macchine intelligenti e in composizioni nelle quali il contrappunto fra i reperti, talvolta parenti, talvolta inattesi, formavano racconti che andarono ben oltre l’onirico.


Questo è l’onda nella quale Vincenzo Vavuso si è infilato. E lo ha fatto con la consapevolezza di chi appartiene alle generazione successiva.


Se quella dei padri era ludica e situazionista, quella recente si trova stimolata da una presa di coscienza ben più contrastante perché ha la sensazione di camminare sul bordo del precipizio della Storia. Il mondo non è più da smontare per essere ricostruito. Il mondo forse è entrato in una fase dove solo la catarsi può essere redenzione.


Ed eccolo Vavuso che brucia i residui, ecco che ne frammenta e ne accartoccia le tracce scompigliando le pagine del libro che dovrebbe contenere un sapere ormai inutile. E interpreta fino al parossismo la funzione dell’artista: non può che essere oggi quella del sommo manierista che sul finire del Cinquecento giocava con tutti i temi rinascimentali per farne il filtro d’ una sensibilità rinnovata. Prende quindi il fuoco, che Alberto Burri aveva usato sulle plastiche candide per scoprirne le magie combuste, e lo trasferisce sui reperti.


La materia apparente contiene infatti una materia recondita che il fuoco trasmuta o sublima come avviene nel crogiolo dell’ alchimista. E il ruolo di mediatore dell’artista non ne è affatto diminuito: è pur sempre la sua mano che conduce il procedimento fatale come una volta conduceva il pennello, è la sua sensibilità che deve sostenere la complessa bisogna del portare fino ai limiti la materia affrontata in questa domestica Apocalisse.


Sorge fatale un cosmo rinnovato e redento. E nell’ esaltazione d’un sano egocentrismo in mezzo a cascami riordinati l’artista torna a manifestarsi protagonista della creazione.


Perchè vi è alla base dell'intero suo percorso una sorta di compressione delle sensibilità, una accomulazione silente ma consapevole di sentimenti e di pulsioni segrete. In lui si condensano "rabbia e il silenzio". Poi viene l'energia del fare e l'implosione esplode nella realizzazione del lavoro.


Adelinda Allegretti

«Sono un figlio arrabbiato di un mondo malato».

Tutta la ricerca di Vincenzo Vavuso potrebbe essere racchiusa in questa frase, di una lucidità intellettiva straordinaria.

Coloro che si aspettassero pulizia formale da un’analisi tanto puntuale quanto incisiva rimarrebbero sorpresi, invece, da quanta “azione”, intesa anche come distruzione e violenza, sia alla base della sua produzione artistica.


Sostanzialmente, sin dal primo approccio virtuale, seguito poi dalla visione dal vero, tali lavori hanno rimandato alla mia mente, più per associazione di idee evidentemente che per reale derivazione, “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury. Tra i romanzi più formativi del mio percorso liceale, l’idea di una società impegnata a distruggere e bruciare libri – di ogni genere, bene inteso – è da allora ai miei occhi sinonimo di antiutopismo e di massimo aspetto della sua involuzione tout court. Immediata, quindi, l’affinità elettiva, per continuare con le citazioni letterarie, nei confronti della ricerca di Vavuso.


Vedere le pagine martoriate perché strappate, bruciate, letteralmente calpestate, tagliate, infilzate e segate in due, per chiunque creda nel ruolo salvifico della Bellezza di dostoevskijana memoria e della Cultura, è davvero un colpo al cuore. Ma tutto ciò è necessario per risvegliare le coscienze da un torpore che ha il sapore di un rassegnato abbandono all’ignoranza, alla truculenta mancanza di valori che a loro volta generano ingordigia, imbrutimento, sudditanza e repressione intellettuale.


Insomma, tutto ciò che chiunque creda negli ideali della Libertà proprio non vorrebbe mai vivere, né vedere. "Sotto chiave", poi, spalanca le porte verso un messaggio ancora più subdolo: la Cultura e la Conoscenza come appannaggio di pochi privilegiati, il che farebbe indietreggiare l’Uomo di molti secoli.


Non a caso Elio Vittorini affermava che «la cultura non è professione per pochi: è una condizione per tutti, che completa l’esistenza dell’uomo».


Anche in "L’abbandono" la chiave compare spezzata, mentre l’altra metà è rimasta all’interno del lucchetto, che simbolicamente non si aprirà più.


Il messaggio è chiaro: se tralasciamo che le fondamenta della nostra cultura, ma anche della nostra civiltà, rimangano inaccessibili o semplicemente passino in secondo piano rispetto ad altre frivolezze, sarà poi molto complicato, se non addirittura impossibile, recuperarle e farle nuovamente nostre.


La rabbia di Vavuso, in questo, è la stessa che dovremmo provare tutti, nel vedere e sperimentare quotidianamente quanti pseudo valori/cultura/arte prendano il posto di più elevati messaggi. La rabbia, pertanto, scaturisce dalla presa di coscienza che l’Arte e la Cultura racchiudono un potere salvifico.


È una dichiarazione forte, che molti altri artisti in passato hanno pronunciato, seppure in modi molto diversi da Vavuso. E proprio per sottolineare questo aspetto, rimando alla lettura di molte opere – ed altrettante affermazioni – di Marc Chagall, pensando a qualcosa di drasticamente antitetico alla ricerca dell’artista salernitano; il ruolo dell’artista, e dell’Arte, è quello di riportare l’umanità sulla giusta via, laddove “giusta” stia per etica. Solo così la Bellezza salverà il mondo.


Michele Sessa

L’arte, che si fa con la tecnica consumata e con il pensiero, conduce l’uomo per mano fino alla sorgente del mistero. Per l’uomo, l’Arte è religione che continuamente pone problemi che pure sembrano insolubili, perché fare Arte è come avvicinarsi alla Verità.


L’Arte, quindi, segreto della vita, necessità interiore, è anche conflittualità antica perché l’ispirazione si cela nel cuore e nella mente dell’artista il quale, dal suo logico punto di vista è sempre alla ricerca del nuovo e del bello.


L’artista, pertanto, è continuo secessionista, promotore che favorisce la secessione per assecondare il rinnovamento del gusto. È per questo, allora, che l’Arte diventa progetto audace è provocante, un segno che si erge contro altri segni, senza la pretesa di essere illustrato o raccontato, perché vuole solamente ( e non è gioco) essere fruito, usato, vissuto. Riconosciuto e sublimato perché esiste!


Il Segno ed il Colore, come la gioia di scrivere, e, come la parola narra e illustra, così la Pittura diventa poesia silenziosa!


Ora, però, veniamo alla dinamica pittura di Vincenzo Vavuso, una pittura ricca di colore materico che fuoriesce dalle schematizzazioni perché ispirata da una moderna poetica pittorica, frutto dell’istinto della specola di un animo altamente creativo e mai artificioso.


Un linguaggio nuovo quello del Vavuso come un alfabeto che unisce, che fa pensare e sperare: un colore quale musica per l’occhio! Una intuizione scientifica che, pertanto, diventa invenzione estetica, con una figura “in nuce” elaborata nella camera della sua mente, proprio ai limiti della “figura”.


La maestria e la invenzione sono nel fantasioso dominio del colore che suggestiona. Visioni che la pittura di Vincenzo Vavuso cerca di fissare grazie ad un piacevole uso del colore come avviene in “FLY” o in “LACERAZIONI”.


Ammirare “PROFONDITÀ MARINE”, “TEMPESTA NEL COSMO” …. Nel settore enigmatico come per l’astratto, per avere autorità è necessario dare grazia col colore, alla favola e allo spettacolo. Un magnetismo ed un manierismo che, per un improvviso miracolo, con un’arcana forza dirompente diventa più vero del vero.


È motivo, estroso è dinamico, per esaltare memorie e sensazioni dove tutto vibra. Novello senso di fare pittura, quello di Vavuso portato avanti con convinzione ed occhio vigile. Visioni interiormente ribollenti e polemiche simboliste, accenti struggenti negli impasti corposi per sintesi drammatiche e significative, come nella “COLATA DI FANGO”.


La pittura è il vero amore di Vincenzo Vavuso perché gli permette di esprimere il senso del “mistero” che è in lui; quel mistero di una profonda bellezza che la Natura, di volta in volta, gli ispira. Nella violenza aggrovigliata dei colori, nascono e muoiono le cose nella caotica civiltà.


Vincenzo Vavuso, innovatore? Vincenzo Vavuso, informale? Vincenzo Vavuso, pittore della secessione? Certamente il Vavuso guarda e immagina scoprendo un qualcosa di intenso e di vero e, tale come sente, fissa sulla tela. Come in “TURBOLENZA”.


Franco Bruno Vitolo

Salerno - Rabbia e silenzio: il grido della Cultura calpestata Vincenzo Vavuso in mostra alla Pinacoteca Provinciale.


Una rabbia che fa riflettere, un silenzio che fa rumore, una mostra che vuole provocare. Non si può rimanere indifferenti di fronte alle cromostrutture ed alle pitture del salernitano Vincenzo Vavuso esposte alla Pinacoteca Provinciale di Salerno dal 15 settembre al 5 ottobre in una mostra curata con acutezza dal prestigioso critico prof. Angelo Calabrese ed allestita con eleganza da Daniela Orrico.


Il messaggio è chiaro e forte: nella quasi totalità delle opere il filo comune è rappresentato dalla presenza di pagine di libro bruciacchiate e sgualcite, sotto l’azione di agenti aggressivi e violenti, come scarponi di pelle, lame taglienti, picconi, colorate ma inesorabili ragnatele create con materiale di vario genere.


Lo sfondo è quasi sempre nero, a volte infiorato da un grande grumo rosso, evocatore di sangue. In qualche lavoro la base è invece trasparente, con una cornice che cerca di non farsi notare, ma con un corpo di fili avvolgenti a ragnatela. Il cammino di questa violenza culmina nella presenza addirittura di un water, pieno di libri bruciati, pronti da scaricare.


Una mostra violenta, dunque. Ma non di una violenza distruttiva: è distruttivo quello che rappresenta, non quello che propone. L’intento dell’artista non è solo mostrare il dolore per una società che sta letteralmente buttando nell’immondizia la forza secolare del libro, segno di quella ricerca dell’Uomo attraverso la Cultura che ha costruito la dignità di un’intera civiltà.


Egli vorrebbe ottenere che, attraverso la coscienza dell’abisso che ci sta ingoiando, noi ci scuotiamo e cominciamo a ribaltare di nuovo le priorità dei valori: non l’ignoranza, ma la conoscenza, non il superficiale disinteresse, ma una rinnovata, appassionata attenzione, non l’egoismo economico ed etico, ma l’apertura solidale al mondo.


Martin Luther King gridava: “Se ami, arrabbiati”. E Vavuso si arrabbia perché gli interessano le cose, perché vuole “amare”. Ne danno conferma anche alcune opere più dichiaratamente propositive, come quella in cui sopra lo scempio delle bruciature campeggia un paio di occhiali, chiaro invito alla “contempl-azione”: guardare, capire e agire.


In una delle opere con gli scarponi sulle pagine bruciacchiate, il titolo è “Non calpestare”, quasi un undicesimo comandamento contro un peccato moderno e antico. In una pittura, egli traccia un confine netto ma ondeggiante tra il bianco e il nero, tra il positivo ed il negativo: un’onda che deve servire a creare ponti, e non certo i muri che spesso si intravedono: quest’opera ha il titolo Rabbia e silenzio, lo stesso della mostra, e quindi ne è quasi l’emblema.


Non a caso era la copertina potenziale di un libro da lui scritto, ma non ancora edito, fatto di poche parole e di tante pagine bianche bruciacchiate. Un libro, anche questo, intriso del silenzio della rabbia e della rabbia che può nascere dal silenzio.


Fino a questo momento abbiamo parlato soprattutto dei contenuti, ma non si può dimenticare il senso artistico della mostra, che rappresenta una svolta decisa nel cammino di Vavuso.


Pur essendo da sempre innamorato dell’Arte e delle varie forme della creatività, egli è uscito allo scoperto, dando finalmente sfogo alla sua passione per la ricerca ed alla visionaria sensualità delle sue percezioni.


In un primo momento, ha agito su due fronti. Come scrittore, ha dato alle stampe il libro La pittura, espressione di noi stessi (ed. Terra del Sole), che è un viaggio non solo nell’emozione del pennello, ma soprattutto nella spettacolare figuratività e nelle originali aperture informali della pittura campana dell’Ottocento e dell’inizio Novecento.


Come artista, si è dedicato nei suoi primi quadri ad opere di forte impatto coloristico, in cui le forme appena appena evocate cedevano il passo a grumi di colori e di materia, il più delle volte per evocare il mistero dell’Energia primaria, del Caos che ha generato l’Universo, dell’Armonia che l’Universo stesso cerca di generare dal suo caos.


Pittura informale, quindi, ben diversa da quella delle opere esposte in Rabbia e silenzio, fortemente simboliche. Non lo tacceremmo tuttavia di incoerenza, perché il filo comune c’è, e come.


Ed è il grido della materia. I grumi delle prime opere e le forme parlanti della mostra in atto sono entrambi un tuffo nel grande cammino della natura.


Nelle prime servono però ad evocare liricamente il senso cosmico delle cose, nelle ultime proprio la materia è il segno della perversa tendenza che porta l’uomo ad uccidere la sua natura pensante con le forme stesse della natura (legno, ferro, vetro, etc.), concepite per costruire ma utilizzate ora per distruggere la sua dignità di natura pensante e cosciente.


Artisticamente, l’urlo di Vavuso viene da lontano e guarda lontano.


Si sente l’influenza delle avanguardie del Novecento, non tanto per il water stile urinatoio di Duchamp, che serviva a dimostrare altro, quanto per l’energia, la materia e l’oggettistica di stampo futurista presente nelle sue opere. Tuttavia, mentre i futuristi volevano “uccidere il chiaro di luna” nel nome della modernità, Vavuso piange sulla morte del chiaro di luna e lotta per costruirne una nuova.


Rispetto alle avanguardie, anch’egli vuole destrutturare il reale e non lasciarsi vincolare dalla ricerca delle forma, ma lo fa per ricomporre nuove forme proprio attraverso il reale ed il suo personale realismo simbolico e lirico.


Perciò, postmodernamente, egli si pone in una posizione di mediazione tra antimoderno e ultramoderno, ma bilanciando con più forza e convinzione l’equilibrio tra lo slancio irrazionale e l’importanza di una ragione che controlli lo slancio creativo per esaltarne la libertà ma anche per trovare le vie più chiare alla sua capacità di comunicazione.


Come lui stesso dichiara, egli persegue la strada di una emozionalità razionale.


Che rappresenta il binario più adeguato per trasmettere la forza di un messaggio e l’intensità dell’emozione. Un binario presuppone naturalmente il cammino, con nuove e più avanzate ed ancora più mature tappe, che certamente verranno da un artista in vulcanico fermento.


Intanto, il primo cammino lo farà la mostra Rabbia e silenzio, che diventerà itinerante e che si sposterà presto a Roma e poi in Liguria e nel Veneto e punterà con motivate ambizioni anche alla scena internazionale. Poi, vedremo cosa ci avrà inventato di nuovo il nostro Vavuso. Ma ci auguriamo che lo faccia in un mondo in cui ci sia meno rabbia ed il silenzio abbia finalmente prodotto i suoi frutti fecondi…


Angelo Calabrese

L’Oro della Città è una rassegna d’arte visiva che, fatta salva la sospensione estetica, attiva l’insopprimibile esigenza di porre quesiti: impegna a comprendere e partecipare, a mettere a frutto anche quello che della comunicazione si è appena intuito.


Vale soprattutto per quelle risonanze che contribuiscono a indirizzare il circostante e a mutarlo attraverso nuovi parametri di spostamento di pensiero, stimolando, quindi, alla modernità, che è un modo nuovo d’esserci al mondo.


Insomma anche questa volta la creatività di Vincenzo Vavuso assolve una funzione estetica che punta  all’essenziale, evocando e testimoniando processi sostanziali di cultura intesa nel senso di spazio che comunica.


E’ sempre, quindi, questione di convergenza per presa di coscienza, perché, secondo il nostro impegno, la comunicazione, rivolta ad una presa d’atto consapevole, cui dovrebbe seguire un’azione comune, cum unica actione, s’incentra su di una particolare materia che attiva atteggiamenti e comportamenti derivanti dal comunicare, cum unica re, data la specificità del fatto da cui non si può prescindere.


Dalla necessità di far luce  s’irradiano, così, processi di evocazioni e testimonianze che si trasmettono al tempo della continuità.


Aggiungiamo a queste considerazioni che mai si potrebbe trarre dall’arte una teoria intellettuale separata dalla vita. Ce lo conferma l’indimenticabile Ernesto Saquella trattando degli ulteriori livelli di significati celati all’interno delle creazioni artistiche, “perché l’arte è lo spazio comune, il crogiuolo in cui si fondono le forme molteplici dell’esistenza”. In quella hanno peso rilevante gli incontri.


Enzo D’Antona, direttore responsabile de La Città, l’organo salernitano d’informazione quotidiana, si è interessato all’opera di un artista pensoso e ribelle, strenuo difensore della natura e della cultura, nei cui orizzonti  la tradizione è vissuta come aria che si respira e l’identità locale, regionale e nazionale, nel contesto dell’Europa dei popoli e del mondo, ci propone non confusi e non divisi.


Vavuso è pervenuto ad un suo stile eloquente.


Da gran lavoratore ha elevato congerie di oggetti comuni ad opere d’arte, assemblandoli alla percezione globale del fatto nel farsi, sicchè si percepisce l’evento nel continuum, nell’incursione drammatica della disumanità che suscita rabbia impotente.


Questo accade intanto nel silenzio connivente e nell’accettazione supina di chi è escluso dalla storia ed è emarginato dalle prerogative che consentono agli uomini umani di viversi, di aspirare alla qualità della vita, che nel degrado acquiescente si riduce alla tragedia del lasciarsi vivere.


D’Antona ha letto le pittosculture e le cromostrutture di Vavuso e lo ha sollecitato a porre la sua arte a servizio della Città, come Civitas civilis, e della testata del quotidiano salernitano, per proporre riflessioni d’etica dell’umanità all’intelligenza collettiva.


Da un incontro fortunato è stata, dunque, posta in essere la rassegna L’ Oro della Città, alla quale dedichiamo le ragioni interpretative dei procedimenti e delle valenze, perfettamente aderenti a quel pensare per immagini che denuncia le crisi del nostro tempo, giusti moniti per le responsabilità future.


L’annunciato predominio dell’oro, come patina e sedimento, come allusione all’architettura che non è solo quella degli scavi profondi per rendere stabili le strutture edificate, vale soprattutto a chiarire il senso del documento storico e civile che all’arte del progettare e costruire riconosce il merito di trasformare il tempo nello spazio cristallizzato.


Solo così l’orgoglio civico apprende e motiva, nei secoli, i percorsi  della civiltà che ha realizzato la metamorfosi del tempo nello spazio. Chi ne prende coscienza, apprende a riconoscere i dialoghi che nei millenni sono avvenuti tra la genialità dei costruttori d’umanità e le tensioni abitative che confluiscono nei luoghi del cambiamento.


La Città è storia e progresso civile, intuisce le opportunità che si vengono prospettando e  l’antivedere è insito nella prerogative della comunicazione.


Vavuso ha voluto che  L’angelo quotidiano si impennasse, strillone antico e sempre nuovo, sulla sua bicicletta che gli consente d’essere più celere nell’offrire l’oro delle notizie quotidiane. L’atleta giganteggia come quei messaggeri d’altri tempi, che erano attesi con il carico dei loro fogli  infittiti degli accadimenti freschi di giornata.


L’opera va letta nei minimi particolari.


Le ruote documentano come le notizie si allarghino a cerchi concentrici, come accade quando un sasso cade in uno stagno. I piedi sono quelli che pigiano sui pedali, ma si elevano da quella posizione, hanno ali mentali, perché  La Città annunciata esige che dalla rete topografica del territorio, con tutti i segni evidenti degli stappi inveterati, si colga finalmente l’invito all’impegno partecipativo, al superamento dell’indifferenza  e dell’omologazione.


L’opera è pervasa da un fremito allusivo agli echi che hanno diversi riverberi tra i pieni ed i vuoti, riscontrabili tra consapevolezza storica e civile e disamore frutto di cinica manipolazione.


L’oro patina e cristallizza le altre volumetrie, rese variamente plastiche e funzionali  all’etica progettuale che si propongono interferenti e sempre aderenti alle finalità comunicate.


Si coniuga all’anghelos sui pedali L’urlo della città che finalmente trova la voce collettiva, decisa a rivalutare i suoi reperti, a riscattarsi, a svegliarsi dal sonno indolente, ad esigere giustizia ed equità.


Quell’urlo abbatte barriere e sceglie di agire e sperare. Pensiamo all’urlo collettivo e non possiamo dimenticare quello che, invece, rompe la serenità domenicale, scuote i pensieri e i dialoghi domestici e si teme per un infausto accadimento. Poi l’urlo si giustifica: ha segnato la squadra del cuore. La gioia sportiva è contagiosa, bella, ma quanto distante dalla difesa dei diritti dell’uomo e delle leggi della natura.


Nelle manipolazioni d’arte di Vavuso la materia prima è sempre quella cartacea: sovrappone, intreccia, articola in forma di rocce, cime, discontinuità in bilico le pagine del quotidiano di Salerno.


Diventano solide forme di naturale architettura, spaziano in aeree volute, convergono all’alto tra evidenze sacrali e profanazioni, andirivieni, tornanti, effetti tellurici, gravi come i terremoti che scatenano le notizie dal mondo in fiamme.


Gli equilibri estetici propongono allevamenti di polvere, grumi attrattivi tra gli onnipresenti pieni e vuoti nei quali l’occhio gode dei particolari  che conferiscono quel senso del solenne che tra Città e notizia assume La chiave giusta, quella che tutti si attendono dall’interpretazione della notizia, comunque in precedenza riportata.


La speranza è sempre nella chiarezza e nella sempre desiderata, invocata trasparenza. Vigila intanto sulla smemoratezza e sulle manipolazioni, operate sui fatti antichi e su quelli recentissimi, L’occhio della storia, ammonendo che il passato meglio si legge con la vista acuta del presente.

Le notizie vengono alla luce, si ri-trovano scavando negli accumuli, investigando tra le radici e sempre Oltre la notte che cela, complice, tracce e segreti. Chi investiga Il peso della Città, avverte il senso degli accumuli, delle rinfuse e quello delle ragnatele che dovrebbero prendere forma per l’azione.

Un’allusione all’informazione intesa come cura della notizia, cui fanno riferimento i curatissimi particolari dell’opera: la città, se è sinonimo di civiltà, ha la certezza di risorgere.

Ne è certo l’artista che, avvalendosi  di utilizzi polimaterici, conferma che tutto ci che si eleva converge all’alto. Basta possedere Le chiavi di lettura per muoversi tra accumuli e superfetazioni di notizie in circumvoluzioni palesi ed occulte.

Una volta assimilati i procedimenti mentali dell’artista viandante, che sdegna la lanterna di Diogene e sceglie d’esserci e appartenerci, agendo con, per, e tra gli altri, è più agevole l’interpretazione. Ne L’attesa si chiariscono le valenze delle incrostazioni e degli squarci, della polvere accumulata nel tempo, degli occhiali  di chi non si arrende.

Intanto affascinano le pagine dei Tesori in cristallo con le loro geometrie segrete, allusive alle regole ineludibili mentre in Primavera d’autunno spumeggiano quei ritagli che fioriscono a nuova vita  con  le loro sorprese: è come riaprire un caso, una ricapitolazione inattesa nella stagione avanzata.

L’aquila in volo di Liber-arsi propone il superamento delle lacerazioni; le pagine-ali si elevano dalle esperienze negative, la città è anche questo, ma per avere ali integre occorre investigare In fondo al sottobosco, ri-sacralizzare, trapanando, scavando tra marciscenze e fermenti, per riscattare alla storia la cronaca della disarmonia.

Solo così potranno anche venire alla luce Tesori dimenticati o trafugati: la grande chiave disserra fatti e luoghi dell’anima, ricordi e memorie. Poi c’è una raccomandazione, un invito alla solerzia: Occhio alla Città!

E’ necessaria una costante attenzione alle cavità, ai pieni che rischiano d’essere vuoti, perché nessuno potrebbe prendere il massimo dalla vita e neppure il minimo, se prendono il sopravvento le condizioni  che condannano a lasciarsi vivere.

Plaudendo alla lungimiranza di Enzo D’antona e tributando il giusto merito a Vincenzo Vavuso, che ha inteso appieno come leggere, in arte, la Città, nell’ampiezza degli orizzonti  di una comunicazione impegnata come quella del quotidiano La Città, troviamo opportune alcune considerazioni.

La Città è un libro immenso; le sue strutture profonde hanno le prerogative della fermentazione trasformazionale. Si rigenerano infatti nel gioco delle energie, i cui ritmi, sempre vari, transitano nei fatti urbani.

La Città è un prodotto della comunità umana ed è pertanto coinvolta nei processi della gente che la compone. Conveniamo con  Lewis Mumford: “Funzione della città è quella di trasformare il potere in forma, l’energia in cultura, la materia morta in simboli viventi dell’arte, la produzione biologica in creatività sociale”.

Vincenzo Vavuso ha dimostrato nelle sue opere che nell’avanzato progresso tecnologico tutto questo non è mai accaduto. Le successioni delle svolte, proliferanti in quelle epocali, non hanno contribuito a darci maggior comprensione delle leggi che regolano la natura e a progettare, verso il possibile, l’ipotesi di una comunità futura.

L’ignoranza, il fanatismo e la superstizione non agevolano, nel tempo della globalizzazione, una civiltà sulla terra come prodotto della comunità umana. Il dissidio incolmabile tra natura vituperata e cultura, vissuta come progresso scientifico e tecnologico, vieta un unitario coagulo delle umane energie.

Forse solo un’unitaria idea superiore, una religiosità eticamente avvertita  nel nome dell’umanità, potrebbe consentire l’accesso ai diritti dell’uomo a venire, ma dal nostro sterminato immondezzaio, al presente è vagheggiata solo una fuga verso le stelle da cui veniamo.

Tornarvi in cerca di un’antica madre potrebbe accadere e sarebbe privilegio di pochi, che avrebbero gestito a loro piacimento le sorti di popoli destinati alle estreme miserie in espansione geometrica.

Noi non rinunciamo alla Città, all’Oro delle nostre radici profonde è delle chiome estese. Siamo consapevoli debitori del nostro contesto non umano, della naturale energia metamorfica che sa opporre la  ferocissima  innocenza  del caos primordiale  agli estremi disastri, voluti dalla disumanità dissennata e perpetrati contro le armonie della natura mirabile, di cui  mai potremmo fare a meno.

Concordiamo con Vavuso, che ha coniugato la sua creatività con l’arte della comunicazione, sulla necessità di recuperare il senso della Città e della società civile. 

Quelle dovranno necessariamente ritrovarsi nelle tensioni abitative che già fecero illustri i grandi progetti voluti come felicità del buon governo, quando si aveva a cuore il felicitare dei concittadini.

Noi non rinunciamo a L’Oro della Città, cioè ad un’adeguata sicurezza,”bisogno essenziale dell’anima”, secondo Simone Weil, all’ordine che regoli le relazioni sociali, alla libertà che è rispetto delle regole necessarie all’utilità comune, al senso della proprietà come diritto alla partecipazione ai beni collettivi e soprattutto all’uguaglianza che garantisce ai meritevoli l’accesso alle possibilità realizzative della persona umana.

Tra l’urlo immane e il silenzio desolato, che inesorabilmente segue, è naturale la pausa. In quella hanno senso le evidenze riflessive che Vavuso, ribelle esasperato, comunica nella sua attuale ricerca, proposta agli uomini umani che, nonostante tutto, progettano per il tempo della continuità con la tempera degli uomini storici che creano eventi reali.

Il nostro tempo dell’incertezza, del mondo complesso e impredicibile, dell’omologazione, condanna al divenire sopravvivente l’andare verso il diritto ad un’evoluzione storica, in cui la vita abbia più vita. Lo esige la laicità che impegna ad “andare verso” nel pieno rispetto dell’etica dell’attraversamento.

Vavuso denuncia l’inconciliabile dissidio tra natura e cultura, tra superpotere economico ed ignoranza generalizzata, tra miseria affamata e fanatismo irriducibile.

Vincenzo Vavuso invoca l’arte che, proponendo orizzonti di auspicati, nobili processi di cambiamento, fronteggi l’ineluttabile che diventa regola e azzera le ragioni della ragione. Alla supremazia giova solo la distruzione delle preesistenze: schiaccia, brucia, massifica, vanifica l’impegno di generazioni che hanno prodotto civiltà e, quel ch’è peggio, alimenta la smemoratezza, disprezza il sentimento e domina l’omologazione.

Questo è l’incubo che atterrisce l’artista, che teme gli effetti della rabbia impotente. Intanto il mistero domina incontrastato. Le più antiche domande che dall’insorgere della coscienza i primi uomini si posero, restano intatte, nonostante le prese di posizione dei creazionisti e degli evoluzionisti.

Da tempi remotissimi, noi, viventi interrogativi continuiamo a chiederci chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Ignorare del tutto queste istanze è possibile: basta convincersi che non ci riguardano.

Però qualche certezza ci compensa: noi siamo quello che facciamo, quello che realizziamo con, per, e tra gli altri e non c’è definizione più bella di quella che riconosce la vita in perenne mutamento come regola e desiderio. Tutto ciò che diviene ha diritto di vivere.

Vavuso teme la sopravvivenza, la negazione della libertà di conoscere e conoscersi nel transito, nell’attraversamento etico, che è tale, perché impegna al rispetto della vita, valore unico e irrinunciabile.

Vavuso non è certo il primo ad esigere una sana crescita culturale, spirituale, e di conseguenza politica, in sereno e sincero progresso. La sua stessa rabbia; il suo urlo più vano di quello di Rilke, addirittura minuscolo nei confronti di quello di Caino, che esige da Dio una ragione, una risposta, totalmente delusa alla sua eterna condanna di datore di morte.

Vavuso si scontra con l’epidemico e acritico eccesso mediatico che conquista masse patologicamente confuse, arrabbiate e affamate di prede da sbranare su comando. I privilegi degli egemoni dominanti sono dogmi: i loro acerrimi nemici sono proprio il pensiero libero, la cultura, l’arte che liberamente afferma la sua decisione creativa ed è sempre al servizio degli uomini liberi.

Chi si nutre di rabbia e vanamente urla contro il silenzio omologato e acquiescente sa che le città senza civiltà sono affollate di solitudini, gravate da prepotenze immotivate, da leggi distanti dalla giustizia e dall’equità.

La nostra società di individui si adegua alla necessità di sopravvivenza, smemorata dalle tradizioni comuni e dei valori della propria storia.

Intendo le ragioni di Vavuso, perché non oso smentire Eraclito: “Uno solo vale più di diecimila per me se è il migliore”. Com’è attuale l’articolo che Pasolini propose sul Corriere il 17 maggio 1973, ribellandosi contro l’omologazione e prendendo spunto dalla pubblicità di una marca vincente nello slogan: “non avrai altri Jeans all’infuori di me”. Quel saggio, ora è inserito in Scritti Corsari, difendeva i sacrosanti diritti delle tradizioni destinate a perdere la propria orgogliosa autonomia.

Nel tempo dell’incertezza e dell’impredicibilità anche la nostra lingua langue tra le elette dall’Europa delle Nazioni: è in gioco l’identità di una Civiltà maestra al mondo per natura ed arte. E quest’è, si dice dalle mie parti concludendo.

Però, nonostante tutto la vita continua ad essere regola e desiderio ed attende il poeta e l’artista che ritrovino misteri nelle certezze inoppugnabili.

A pagina 73 di quel prezioso volumetto che con il titolo di Carte Lacere venne pubblicato in edizione numerata nel 1991, a dieci anni dalla sua scomparsa, Leonardo Sinisgalli richiama la nostra attenzione ad una inoppugnabile evidenza. Ci ricorda che: “3 numeretti trascendenti, inesprimibili per cifre, fanno la trinità che regge il mondo: 1618…;3141…;2718…;”.

Internet che ora agevola i supponenti e gli sprovveduti, abili nel copia e incolla, a farsi belli del buono e del nuovo altrui, valga per ritrovare i numeri di cui sopra e dare una sbirciatina anche alla derivazione di Google, che prende il nome da un non corretto spelling.

Si incontreranno cifre d’alto interesse; 10 seguito da un milione di zeri o da un milione di milioni di zero…. E che fine è riservata ai numeri primi in questa nostra realtà dell’impostura, che provvidenzialmente ri-trova un pontefice esperto della laicità del rivoluzionario Francesco?

Sinisgalli era attento “ai numeri primi che nelle oro estreme solitudini si affiancano e forse si collegano in colonie come le stelle”. I numeri primi del pensiero e delle arti vivono malissimo.

Si ritrovano come Morgante e Margutte a verificarsi in improbabili dialoghi mentre scalano l’estrema cima della loro Himalaia per poi rendersi conto che, in vetta, il vertice si perde nei cieli che celano. In tutto questo lo scarabocchio è legato alla nostra fisiologia e la calligrafia alla nostra cultura che, se d’imposizione non è spazio che comunica. La materia grigia del mondo è però sempre in fermento e, quindi, non ci sarà mai stasi finché il pensiero lo tiene sveglio.

Che dire a Vavuso che deve difendere le ragioni dell’arte? Denunci e non si arrenda.

Per ora mi tocca riflettere sull’amplesso pitagorico rappresentato da due quadrati contigui. Eppure non ho dimestichezza con Cartesio Maestro di Regine. Ho respirato il tufo delle stanze in cui Vico si spupazzava la figliolanza ed era precettore di scugnizzi. Sono certo dei ri-corsi che rendono giustizia provvidenziale agli umani valori.

Siamo impegnati al tempo della continuità, la progettiamo, se perseguitati alla luce, a in sotterranei percorsi, pronti a venir fuori non appena langue la virulenza che vanifica il bene che gli uomini fanno. Non calpestiamo la natura, né bruciamo i libri del sapere. Esigiamo eventi storici qui e ora, sulla Madre terra che ci nutrì di miti reali e praticabili nelle evoluzioni dei tempi che ce li rinnovano, in chiarificazione.

Ci piace James Mead che, reduce dalla vana ed estenuante ricerca praticata nei mari, sulla rotta per Utopia, sulla via del ritorno ha infine incontrato nell’isola di Agathotopia il luogo d’appartenenza e di continua modificazione, in cui confluiscono ciò che è stato e ciò che sarà.

Per quanto concerne la scelta delle evidenze comunicanti ad unum, è interessante sottolineare che, oltre i riferimenti metaforici, Vavuso, nella concretezza della denuncia e della diretta comunicazione con il sociale nei giorni di tutti, non mistica i materiali. Aggiunge solo il colore connotativo, relativo alle catene, alle armi da lavoro che diventano strumenti di tortura e sopruso.

La crudezza dell’epifania, grazie al richiamo del legno, del ferro, della carta, che si sono evoluti in oggetti d’uso e di civiltà progressiva, diventa ancora più eloquente, perché la rabbia che grida la disumanizzazione, è forte richiamo all’incubo regressivo, che incalza proprio dove domina il silenzio acquiescente.

STRUTTURE ESTREME
-Reperti e Profezie-

La scelta di un linguaggio comune all’esistenza, che informi cioè e comunichi, a lampo d’occhi, lo stato delle cose, il questo è, l’ecce homo, ha impegnato Vincenzo Vavuso a far arte nel senso del visibile-tangibile.

Ha proposto, quindi, le sue cromostrutture come allarmi di forte richiamo per i valori umani, che si ritrovano nello specchio di condizioni di non ritorno.

A quel punto, di fronte all’ineluttabile che si fa prassi, l’arte, come speranza che si fa ragione, ritrova senso e funzione. Alimenta pertanto il progetto d’umanità che coraggiosamente si attiva per il tempo della continuità proprio nei luoghi di massime trasformazioni.

Prima che al punto di non ritorno la ragione, smemorata di noi, non offra possibilità risolutive, la poesia che nelle arti custodisce e tramanda le ragioni della ragione attraverso gli umani argomenti, ci sprona a non dimenticarci della nostra essenza.

Vavuso propone le sue opere come poetiche strutture estreme, come reperti investigati nel tumulto dei sentimenti che vibrano fino all’acme del tragico, addirittura senza prospettive catartiche.

Gli stessi elementi costitutivi degli assemblaggi, nelle loro assurde, distruttive interferenze, si evidenziano sottratti alle particolari funzioni per le quali erano stati ideati e prodotti: Tutto è stravolto nell’inconciliabile dissidio tra natura e cultura, intesa come scienza che, negli accelerati processi tecnologici, muove verso mete inimmaginabili per un’angusta visione umanistica e una cultura che affondi le radici nella spesso malintesa grande tradizione.

L’artista sa bene che cultura è lo spazio che comunica e che la tradizione è l’aria che si respira, ma come uomo erede d’umanità è dalla parte degli esasperati ai quali si negano i diritti elementari, in un clima di naufragi, che nulla hanno a che vedere con quelli delle filosofie e delle letterature, ma con l’inclemenza delle onde vere, degli approdi dalle guerre agli odi razziali, dalla fame all’indigenza di dignità e di rispetto della persona umana.

Vincenzo Vavuso grida la sua compassione, urla in nome del sancito diritto di potersi ritrovare ognuno in se stesso, ma in una società socialmente globalizzata, fuori dalle tracimazioni dell’ignoranza superstiziosa e fanatica.

Urla il bisogno di liberarsi dalla massificazione, che condanna una società di individui all’invivibilità di solitudini affollate al nichilismo, all’afasia, all’annientamento della specie nel trionfo dello strapotere economico e massmediatico, che nei vaniloqui di parole contro parole, riduce l’universo degli arrabbiati e stremati al silenzio-assenso.

Credo così di aver chiarito il senso dei percorsi d’arte di un uomo di libertà, che grida prendendo atto di come la rabbia esasperata si autoconsumi esausta, mentre restano in silenzio quelli che potrebbero intervenire in nome del prometeico Progetto d’umanità, che non si azzera e non si cancella: nonostante tutto è comunque e tuttavia in atto.

Almeno questo osiamo sperarlo. Le cromostrutture di Vavuso sono attrattive, eloquenti, veggenti nel senso del monito ad essere vigili nei mutamenti, nelle svolte epocali, che determinano riferimenti culturali decisamente mutati.

Le arti e la libertà creativa da sempre conferiscono le ali alla modernità, sicché possa innovarsi coerentemente nel progetto per il tempo della continuità.

Vivono alle svolte epocali una irrepetibile occasione per affermarsi in ruoli mai disgiunti dove, senza i dogmi della verità e della completezza,  proprio nell’incertezza e nella impredicibilità e nella complessità del mondo, nel probabile e nell’indecidibile, la cultura scientifica scopre di non poter fare a meno di coniugare filosofia, esoterismo, e attualità.

Mondi che sembrano separati, perché tali li vogliono l’ignoranza, il fanatismo e la superstizioni, si inverano alla luce di organiche interferenze e la grande tradizione torna, come aria che si respira ad essere faro per uomini che il sapere scientifico affranca da millenarie mortificanti credenze.

Le intuizioni creative del nostro artista si proiettano ben oltre quei corpi ed ombre dell’esistenza prelevati, manipolati e assemblati in strutture tridimensionali, significative di cause ed effetti di annientamenti concatenati dalla follia devastante.

Si recepisce all’impatto con l’opera d’arte una visione istantanea del tempo in cui viviamo.

Il delirio di onnipotenza dello strapotere della scienza e della tecnologia ha desertificato la sapienza edificata sui pilastri che davano senso ai valori spirituali e alla coscienza, consapevole erede di antichi valori.

La natura, tradita nei suoi ritmi armonici, non più tutelata nel senso di patrimonio da rispettare, accrescere e tramandare per affidarlo alle generazioni future è solo energia in cerca di rinnovati equilibri.

Per ristrutturarsi, deve ritrovare il caos primordiale e rinnovarsi attraverso nuovi archetipi da cui trarre le radici che la vivifichino, partendo dal sonno nella pietra, dalla vitalità risvegliata nelle piante, dalla possibilità di muoversi nell’animale e finalmente di approdare all’accensione del pensiero nell’uomo.

Vavuso in altri termini ci ammonisce a non perdere del tutto una immane costruzione che da milioni di anni si è venuta risolvendo, in progressione geometrica, solo negli ultimi quattromila anni.

Il rischio di perdere tutto è tangibile, lo si avverte imminente dove e quando non si compiono azioni responsabili nel rispetto delle pari dignità altrui, senza troppi rimpianti per quel umanesimo culturale che non ha sempre saputo difendere le conquiste delle conoscenze dall’oppressione, dall’oscurantismo ed ha ostacolato chi nel dubbio procedeva verso il possibile, forte di un’apertura mentale pronta alle verifiche coraggiose come il taglio del nodo di Gordio.

Viviamo nel pieno medioevo della scienza e poco sappiamo della nostra madre Terra.

L’arte di Vavuso è attuale e come artista veggente e di frontiera si propone di salvare la umane consistenze in momenti drammatici, perché il passato tradito non è ancora transitato, con la dignità di inalienabili preesistenze, nel progetto per il tempo della continuità.

Mentre l’esasperazione si configura come condizione generalizzata a tutti le latitudini, dove i viventi tribolano per gli scompensi naturali, gli eccessi egoistici, l’oscurantismo che gioca le sue carte estreme, contrabbandando per conflitti religiosi quelli motivati da interessi molto terreni, mentre si radicalizzano i non sempre gloriosi resti dei monomiti di ideologie da dimenticare, quali quelli della razza, dello stato, dell’occulto, del terrore, nonostante tutto il pensiero raziocinante si raccorda a quello simbolico.

Vavuso non si rassegna all’idea che non siamo ancora riusciti ad essere uomini umani, ben sapendo che il destino dell’universo non sfugge alla probabilità e che tra tutti gli organismi viventi che hanno un programma, solo l’uomo ne prende coscienza, ne studia delle parti e le rivede criticamente, come afferma Popper.

Bene fa un artista ad esigere tempi e spazi opportuni agli uomini umani, che come tali devono proporsi per l’umanità avvenire.

È un’esigenza da avvertire proprio nella consapevolezza che il macro cosmo ed il micro cosmo hanno come proprietà epistemologiche la complessità e la impredicibilità che nel progetto d’umanità futura non c’è posto per l’ignoranza superstiziosa, prepotente e assetata di dominio.

Non saprà mai rassegnarsi alle indicazioni della meccanica quantistica che "ha sancito la perdita di cinque capisaldi della conoscenza, quale l’oggettività, la certezza, il determinismo, la casualità e la completezza"

(Simona Cerrato Meccanica Quantistica, 1995).

È tempo di diventare consapevoli, in termini totalmente nuovi, dell’unità tra logos e mithos, tra raziocinio e aspirazione metafisica "per recuperare nell’immagine dell’Uomo e della Natura, quella sacralità che il mondo contemporaneo sembra aver smarrito, ma della quale avverte confusamente l’esigenza", come afferma Maurizio Colafranceshi.

Luigi Crescibene

Gli esiti pittorici del validissimo artista, che ha già percorso un luminosissimo “cursus honorum”, sono connotati da esiti pittorici che, in una cifra personalissima, sono trascorsi dalle più significative esperienze artistiche del novecento.


Vincenzo Vavuso è un artista consapevole.


Nulla è lasciato all’improvvisazione, a furbesche scorciatoie, a distraenti spettacolarizzazioni. Kandinsky aveva affermato: “Niente è più sbagliato che credere che una fedele riproduzione della natura sia arte”. Vavuso sembra aver fatto propria l’enunciazione del grande maestro.


La pura rappresentazione mimetica del dato reale, dell’oggettività esterna è tenuta, rigorosamente, distante. L’artista non riporta la concretezza, l’oggettualità mesta e alida, la natura delle cose, ma le leggi che le animano.


Riporta la progettualità, la semplificazione, la scomposizione, la ricomposizione e l’accordo. Riporta la sensibilità fondale, le emozioni profonde e larvali, l’esigenza di esserci e di esondare, di smarginare e ritrovare il reale oltre la visibilità apparente, formale, ingannevole, bara.


E il colore esultante, scialbato, distillato, acceso, schioccante, sommesso, intenso, modulato, incalzante rimanda, senza falsificazioni, alla percezione più viva, autentica e intima delle cose.


Il rapporto tra forma e colore non è stringente, avviluppante, coattivo. La resa artistica è libera, leggera, appena mediata, ma le suggestioni delle correnti espressive del Novecento, non incidono più del necessario.


Vavuso asseconda la sua cogente esigenza di cercare, introiettare e riportare il bello.


Asseconda l’impeto, l’onda emozionale, ma la sorveglia, la raffrena, la contiene. L’intensa densità della materia, sposa, spesso, accostamenti cromatici vividi, audaci, spavaldi, in una semplificazione di linee e disegni che cercano e trovano l’essenzialità pura, la comunicazione immediata e vera, al di là di strutturazioni esornative, di vieto, bolso e trucido decorativismo.


Resta il bello, resta il vero. Resta l’indomabile ansia di andare oltre il visibile, di ritrovare e ripercorrere i “nostos” di allora, di aprirsi i varchi che vanno lontano, tanto lontano, in plaghe inesplorate, in mondi leggeri, diafani e puri fra voli, carezze, bagliori, tremori, edenici abbandoni, silenzio e mistero.


“L’oggettivo in se stesso è senza significato… Decisiva è invece la sensibilità, ed è per il suo tramite che l’arte arriva alla rappresentazione senza oggetti…

Cosi scriveva Malevic.


E alla sensibilità accentuatissima, alle folte, intricate ed aristocratiche risorse interiori, Vincenzo Vavuso affida il compito, fervidamente lieve, di rappresentare esili articolazioni dello spazio, l’accordo dinamico delle superfici, l’elargizione vibrante del colore, attimi e atmosfere di intensa e morbida concentrazione lirica.


I riverberi dell’interiorità in una nuda e confabulante resa essenziale, si fanno sedimentazione pulsante di incanti e passioni, di tensioni, regressioni, trasalimenti, ripiegamenti,magia e malia in trasposizioni di atmosfere rarefatte, dinamiche, limpide, trascoloranti, in sottilissimi giochi di luce, di ombre e colori. Le tralucenti penombre dell’animo.




Raffaella Ferrari

Il cammino dell’artista ha inizio con il figurativo per avere una svolta decisiva agli inizi del nuovo secolo verso l’informale, il materico.


Il suo grande amore per la natura lo guida, nell’attuale percorso, ad inserire nei suoi elaborati elementi naturali come: terra, sabbia, frammenti di tronchi d’albero.


Innumerevoli sono le sue partecipazioni a collettive e personali, opere sue sono presenti presso enti statali e collezionisti privati. Seguito e apprezzato sia dai fruitori che dalla critica, di lui hanno scritto e pubblicato in riviste di settore professionisti del mondo dell’arte.


Le sue opere nascono e si sviluppano, dopo un impegnato studio personale, in maniera spontanea ed efficiente. Al momento della stesura all’idea iniziale, che è prettamente formale, aggiunge l’emozione del momento.


Cattura il pubblico attraverso il suo linguaggio e con la ricca gamma di tonalità, affidandogli le chiavi per addentrarsi nel suo mondo di pure commozioni dell’anima. Ogni traccia da lui stesa è il frutto e il riassunto di un percorso importante della sua vita, geroglifico dell’anima, felice e colmo d’emozione.


Il grande amore nei confronti della montagna lo conduce alla realizzazione delle opere qui esposte: “Vallata” e “Paesaggio Innevato”, che offrono un grande scenario astratto, ricco di pathos e trasporto sentimentale.


I colori verdi e rossi dominano la scena proposta, a ricordo della natura rigogliosa, mentre i rossi riconducono il nostro pensiero ai tramonti estivi, dove le montagne si mostrano nel loro splendore consegnandoci la loro essenza di ossidi.


Il collegamento mi è spontaneo ed immediato nel momento in cui, rivisitando i miei ricordi m’affiora alla mente l’immagine del maestoso Monte Civetta in provincia di Belluno che al tramonto si veste di colore rosso talmente intenso da essere assorbito da tutto ciò che lo circonda.


Vavuso cola nella tela il colore, lo plasma, lo modella e lo conduce alla forma, non forma, pervenendo ad un risultato finale dalla grande suggestione.




Daniele Menicucci

Vincenzo Vavuso ci stupisce ancora nella sua ultima mostra personale nella sua Salerno. Comune si ritrova lo spessore artistico già individuato e perseguito nella sua precedente esposizione personale presso La Pergola Arte di Firenze.


L’arte di Vavuso possiede il gusto moderno della contemporaneità che vive, abbinato allo stupore alchemico dell’interesse umano che cattura il lavoro di questo Artista, un lavoro che applica cerebralmente ed emotivamente onde indurlo a cimentarsi in moduli di nuovo sapore, un sogno ammirato d’armonia, per tutto ciò che lo circonda.


L’Artista è anche un fine letterato e studioso dell’arte Campana; da ricordare il volume “La pittura: l’espressione di noi stessi” edito nel c.a. 2012 dalla Terra del Sole Editore.


Stigmatizza l’essere Uomo – Artista in questi tempi di cambiamenti sociali, dando forma ad una girandola di molteplici emozioni fermandole sulle tele con vertiginosa reazione di segni e colori dando corpo a quell’iter di emozioni firmate “VAVUSO” che soltanto un grande Artista campano può concepire.


Il bello, il sentito, il vissuto si intrecciano così in un unicum facendo risaltare l’autore di queste opere come compositore di un orchestrato certamente suonato sopra le righe di un comune sentimenti pittorico.


Abbiniamo Vincenzo Vavuso ed il suo lavoro tra quei personaggi del passato di grande spessore rinascimentale che vissero con l’Arte, per l’Arte, attraverso l’Arte. Uomini luminari che portavano avanti l’indistruttibile percorso artistico per cui erano stati creati, nel sistema cui fermamente credevano: La meravigliosa “Idea dell’Arte”.


A Vincenzo Vavuso emulo nuovo di questi grandi del passato porgiamo con orgoglio e referenza gli auguri di una splendida carriera in nome dell’Arte pittorica moderna immortale.

Questa è la mostra pittorica dell'artista Vincenzo Vavuso che si svolge attraverso gli spazi di un rapporto umano-universo di difficile realizzazione.

L'artista arriva ad attuare questo percorso attraverso l'immagine che gli detta la sua coscienza, verso la comprensione umana.

Arriviamo così a decifrare opere come Big Bang fino ad arrivare a "Via lattea" e "Alieni" dove e descritta in maniera informale la presenza di figure immaginarie che in pittura è difficilissimo catalogare.

Merita ammirazione il percorso creativo intrapreso da Vincenzo Vavuso per l'astrazione che compie complici materia e colore che gli valgano un naturale passaggio di prova dove solo i grandi artisti osano cimentarsi.

Le sue opere si spingono in visioni di grande drammaticità corredate da quell'alone personale che solo l'artista Vincenzo Vavuso adopera magistralmente attraverso i suoi sentimenti collocandoli nelle sue tele.

L'azzurro dell'opera "Before" traccia il significato più tangibile, l'amore, che comunica la sua opera a cui tutti possono accedere. Guardando le opere dell'artista arriva diretto fino a noi il fil-rouge della Genesi che lega l'uomo al suo spazio-tempo e lo accompagna verso l'oltre, un oltre che sono le visioni più pacate di Vincenzo Vavuso verso l'ignoto che lo circonda.

Un problema d'identificazione avranno i visitatori davanti a tele difficili e splendide come "Tempesta nel Cosmo", "Maturità" e "Anime nell' oscurità" opere personali che precorrono gli stadi del nostro immaginario sulla creazione.

L'artista maestro pittore lo abbiniamo idealmente a Dante Alighieri, sommo poeta, per la forza e il coraggio di descrivere e trasmettere il non vissuto ed il non visto, uniti nel gorgo poetico mentale che permette di narrare e decifrare il mistero.


Michael Musone

Così definirei i quadri del pittore Vincenzo Vavuso presentati nell' ambito della mostra "oltre gli schemi" al piano nobile di Villa Bruno nel comune di S. Giorgio a Cremano.


Opere informali ragionate queste dell'artista campano che rifacendosi al Big Bang iniziale della nascita del cosmo come percorso umano conclude con gli incontri misteriosi di alieni incogniti e non ben definiti.


La mostra pittorica da lui presentata e degna di nota positiva perchè in chiave informale si concede un percorso evolutivo carico di passione dimostrata da quadri mozza fiato quali: "Before Big Bang" ed "Esplosione", dove la materia e il colore sono solo il mezzo interpretativo di una grande presa di coscienza sull'inizio di un evento imprescindibile quale la nostra locazione terrestre.


E' follia rappresentarlo? Direi di no, perchè l'artista l'immagina e lo descrive drammatico, epocale e completo. Una mostra sul filo del rasoio emotivo questa dove tutto trova la sua collocazione dinamica fino a raggiungere punte di indicibile pathos nella rappresentazione di "evoluzione" tema astratto ma reale nella visione di "Verso una nuova vita", "Maturità" e "L'anime nell'oscurità".


Mostra che interagisce attraverso labirinti visivi di aspetto e di spessore artistico, perchè è d'artista narrare visivamente l'inenarrabile.


Visioni mature cadenzate pittoricamente raggiunte dopo un passato artistico certamente fecondo che ha portato Vincenzo Vavuso ad esprimersi con la capacità del cuore e dell' intuizione adoperando il suo innato senso emotivo ed estetico.


Mostra da non perdersi questa dedicata all'artista dal Comune di S. Giorgio a Cremano dove l'arte è di casa solitamente in plein air solitamente accompagnata dalle dolci melodie musicali campane che gratificano un soggiorno per gli Dei, Dei moderni e visionari questi che accompagnano "Il percorso d'artista" di Vincenzo Vavuso unico e riconoscibile attraverso un dettato umano difficile e decifrabile avendo come sostegno un comune senso d' amore per la natura, la fratellanza e la famiglia.


Un plauso all' artista che si allinea al coro dei soggetti talentuosi che eleggono il loro senso creativo in base alla pluralità eleggibile dei grandi sentimenti, trampolino prezioso di lancio per una nuova futura umanità felice.




Rosario Pinto

Matericità e nuovo realismo

Istanze ancora “nouveau realistes”, ed ansie “concettuali”, non scevre di una sensibilità “poetico – visiva” vissuta in chiave “materica”, s’incrociano nella ricerca di Vincenzo Vavuso, impegnato in una mostra presso la Galleria “Controsegno” di Pozzuoli (Na), brillantemente guidata da Veronica Longo.

Le opere dell’artista sono molto significative e si lasciano avvertire come traccia di un percorso erratico che si giustifica come riconsiderazione pragmatica che l’artista sa rendere di talune istanze sociali, che egli si studia di leggere attraverso una radicale trasmutazione di senso degli oggetti.

Invocare i precedenti di Man Ray e dello stesso Duchamp potrebbe apparire una soluzione critica per una facile iscrizione dell’operato del Nostro entro la sfera tranquillizzante di un regime di prescrittività formale.

Ma le cose sono un tantino più complesse, giacché il lavoro che il Nostro va conducendo intende non solo scandagliare le opportunità che si offrono a muovere dalla temperie del “ready made” fino alle istanze già prima richiamate “nouveau – réalistes” e, poi “pop” ma anche procedere ad esplorare l’universo materico da cui germinano ed in cui annegano le immagini stesse con tutto il carico della propria anche ingombrante oggettualità.

Di tale complessa concatenazione costituisce chiave disvelativa e fonte di fertile opportunità ermeneutica la dimensione “concettuale”, che vale a centralizzare l’intervento fruitivo in un gioco di rimandi specchianti tra l’attività dell’artista ed il suo pubblico con uno scambio attivo di pensiero e di proposte di lettura che vanno ad ampliare notevolmente l’offerta contenutistica.

Un’opera, ad esempio, come “Rabbia e silenzio”, del 2013, può essere efficacemente invocata a testimoniare della complessità dialettica che anima la ricerca di questo artista fortemente in bilico tra “concettualismo” e “matericità” vissuta nel segno d’una oggettualità “nouveau – réaliste”.



Massimo Ricciardi

Una grande passione per l’arte e quella in particolare per la pittura dell’Ottocento, hanno spinto Vincenzo Vavuso alla realizzazione di questo volume.


Il suo grande amore per l’arte gli è apparso a tratti quasi incontenibile, per il vigore e l’entusiasmo con cui i pensieri su artisti ed opere affioravano nella sua mente.


Egli ha deciso, pertanto, di chiedermi qualche suggerimento ed opportune indicazioni, affinché le sue appassionate riflessioni avessero maggiore organicità e prendessero forma concreta.


Si trattava in effetti di pensieri e considerazioni interessanti, che andavano sviluppati in maniera ordinata e secondo un percorso che Vincenzo Vavuso ha poi tracciato in maniera coerente ed organica. Un percorso che, partendo dalla Napoli dell’Ottocento, è giunto fino all’arte contemporanea, con riferimento particolare agli esponenti più significativi dell’area geografica campana.


L’autore ha così potuto rendere concreta, con questo volume, quella che era solo un’idea astratta: comunicare ed esternare con entusiasmo e competenza la propria esperienza di collezionista ed appassionato di arte.


Al riguardo, utili ed interessanti mi sono parsi i consigli di carattere pratico che il Vavuso ha ritenuto opportuno inserire nella pubblicazione, in coda all’excursus storico artistico, per gli appassionati neofiti.


D’altronde tra i motivi per cui ho aderito con piacere a questo invito, vi è quello che la sua encomiabile iniziativa, sorretta da un sincero e contagioso entusiasmo, mi è sembrata utile per la diffusione di un rinnovato interesse per la pittura, meritando pertanto di essere sostenuta.


Le considerazioni e le analisi dell’autore, puntuali e minuziose soprattutto sulle opere degli artisti nostrani, più vicini alla sua esperienza diretta ed al suo gusto collezionistico, mi hanno ricordato spesso il trasporto emotivo con cui Winckelman descriveva l’Antinoo o l’Apollo del Belvedere.


Come non pensare, inoltre, alla “sindrome di Stendhal” quando Vincenzo Vavuso descrive le sue profonde e sconvolte reazioni emotive dinanzi alla ineffabile bellezza di alcune opere?


Certamente nelle intenzioni dell’autore non vi era quella di cambiare il corso della storia dell’arte, come fecero gli scritti del grande storico tedesco del Neoclassicismo, né di lasciare un segno indelebile nella letteratura, come avvenuto con l’autore della Certosa di Parma.


Tuttavia la passione e l’amore per l’arte, con cui Vincenzo Vavuso ha realizzato questo volume, non sono inferiori a quelli espressi nelle loro opere da questi illustri predecessori.


Salvatore Russo

Vincenzo Vavuso "In the attic" In soffitta risiedono i ricordi. In quei vecchi bauli abbandonati, si può ritrovare quel profumo, o quell' oggetto, in grado di farci tornare indietro nel tempo.


Vincenzo Vavuso tesse la sua tela concettuale.


A differenza della mantide religiosa che uccide il suo uomo, il maestro non vuole uccidere i suoi ricordi. In questa composizione troviamo alcune pagine bruciate di un vecchio libro. Un fuoco che arde e che vuole portare con sé le storie di vita. Un vero e proprio filo di Arianna viene sciolto in questo labirinto concettuale al fine di condurre l'osservatore verso la giusta uscita.

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